Era il 2008 quando conobbi Caterina Iacobitti. Lavoravamo insieme al Tetto Azzurro, un centro gestito dal Telefono Azzurro. Quando, nel 2010, il centro è stato chiuso ormai si era creata una profonda amicizia, fatta di stima e rispetto reciproco.
Da qualche anno Caterina – psicologa e psicoterapeuta – lavora con i migranti e oggi 20 Giugno 2021, Giornata Mondiale del Rifugiato, le ho chiesto di rispondere a qualche domanda.
Caterina raccontaci di cosa ti occupi e da quanto tempo lavori con i migranti
Sono una psicologa e psicoterapeuta ad approccio sistemico relazionale. Lavoro da più di cinque anni con i migranti, in particolare prima nei CAS, centri di “prima accoglienza” della Prefettura, e successivamente nei progetti SPRAR/SIPROIMI del Comune. Ho avuto la “fortuna” di lavorare sia in centri che accolgono uomini adulti, sia in centri che accolgono nuclei familiari.
Che idea ti sei fatta?
Difficile dirlo: ogni situazione è a sé. Poi come psicologa ancor più ritengo che ci si muova in un campo fatto di differenze, di storie che assumono sfaccettature e “colori” variegati. Quello che so è che sento di averci guadagnato più io che le persone che ho incontrato. In termini personali, professionali, relazionali, culturali…come ho detto in un’altra occasione io, migrante come tutti i migranti che ho accolto, abbiamo accolto, sono forse riuscita a cogliere nel profondo i significati di essere sradicati dalla propria terra…con la differenza che per me è stata una scelta. Straniera io, abruzzese, in una terra tanto diversa dalla mia, in un contesto culturale, Roma, distante da ogni mia fantasia precedente; lontana da una famiglia e da una rete che per me, fino a 19 anni, erano stati fondamentali. Quindi cosa dire, se non che è stato doloroso? Credo di comprendere il dolore che accompagna ognuna delle persone che ho conosciuto.
Raccontaci un episodio per te significativo che ti ha coinvolta in prima persona
Ho mille episodi da raccontare, forse anche più, perché credo di aver incontrato più di mille persone…ho incontrato il dolore, la patologia, la solitudine, la speranza, la vittoria, la realizzazione. Ho accompagnato un uomo durante una crisi mistico religiosa in un reparto di psichiatria, ho ascoltato di torture e di tutto quello che ne consegue, ho sentito ragazzini, da poco maggiorenni, chiamarmi mamma….
In una occasione in particolare mi è capitato di accompagnare un richiedente protezione internazionale nella sede della Commissione Territoriale che avrebbe valutato la sua richiesta. Si trattava di un uomo fuggito dalla Costa D’Avorio per problematiche legate all’appartenenza del fratello ad un gruppo che non appoggiava il governo. Quest’uomo, non solo nel suo Paese, ma anche in Libia è stato vittima di torture e trattamenti degradanti.
Nel centro indossava sempre un cappellino con la visiera, di giorno e di notte. Dopo un po’ che ci conoscevamo gli avevo chiesto come mai non lo togliesse mai e lui mi aveva spiegato che lo sentiva come una fonte di protezione, su quella testa che, dai suoi racconti, aveva preso molte botte. Il giorno della Commissione, seduti ad aspettare in una fredda sala, mi ha chiesto se entrando potesse tenere il cappello. Era un momento molto difficile per lui, in cui raccontare la sua storia aveva una valenza emotiva molto forte. Gli ho spiegato che per educazione di solito non è bene tenere il cappello, ma l’ho invitato a chiederlo al commissario che lo avrebbe ascoltato, magari anche accennando la ragione per cui avrebbe voluto tenerlo. Appena entrati è stata fra le prime cose che ha domandato e il commissario, una donna molto sensibile, ha compreso immediatamente e gli ha permesso di tenere il cappello. È stata un’audizione complessa, durante cui ci sono stati momenti in cui l’uomo si è “dissociato” a causa della forte carica emotiva dei suoi racconti, ma è riuscito a portarla a termine, seppure con dei “buchi” nella storia che non gli hanno permesso di prendere la protezione più “forte” prevista nell’ordinamento giudiziario.
Tempo fa quest’uomo mi ha contattata perché aveva bisogno di alcune informazioni. Era in Olanda. Aveva raggiunto la donna con cui aveva avuto una figlia prima di venire in Italia. Mi ha inviato una loro foto. Mi sembrava stesse meglio. Aveva un sorriso felice.
Molto spesso alle persone arrivano notizie allarmanti che preoccupano soprattutto in relazione alla sicurezza personale e collettiva. Cosa puoi dirci a riguardo?
Sono una donna, e per la maggior parte della mia esperienza ho lavorato con uomini adulti. Entrando nelle stanze di questi uomini, relazionandomi a loro tutti i giorni, ho imparato, come per tutte le relazioni interpersonali, che quello che dai ricevi in cambio. E parlo di rispetto. Mai mi sono sentita in pericolo ed anzi quando è capitato, a volte, che ci fossero delle risse nei centri (come potrebbe accadere in qualunque situazione di tensione) erano i ragazzi stessi a scansarmi e a dirmi di farmi da parte per non essere colpita o coinvolta. Trasmettendomi una grande attenzione e senso di protezione nei miei confronti.
Rispetto alla sicurezza collettiva, credo che la mancanza di assistenza nei confronti di chiunque ed il disagio sociale potrebbero condurre le persone a compiere reati. Con questo intendo chiunque. Qualunque persona abbandonata a sé stessa rischia di arrivare a delinquere poiché spesso la strada più semplice è quella della malavita. Ritengo anche che persone che non abbiano la giusta assistenza sanitaria, psicologica in particolare, possano avere scompensi psichici e arrivare ad essere pericolosi…assisto a scene di persone che bevono, parlano sole per strada…chiaramente io vedo la sofferenza che ci sta dietro. Non posso pretendere che tutti lo comprendano, maquella sofferenza parla di un abbandono da parte di un sistema che, ad oggi, non ritengo tuteli la salute psicofisica di troppe persone. Questo conduce ad un senso di insicurezza. Per non parlare poi della paura dello sconosciuto…che fa sì che vengano alimentate false credenze riguardo a tutto ciò che non rientra nei nostri canoni occidentali.
Qualcuno tempo fa mi disse “tu non puoi capire cosa significa stare a contatto con queste persone, lo psicologo non può capire perché non è in prima linea, arriva dopo…”. Cosa ti senti di rispondere ad una frase del genere?
Ho una brevissima esperienza come psicologa in prima linea durante uno sbarco. Credo di poter capire. Credo che le forze dell’ordine impegnate in contesti di accoglienza debbano essere supportate sia in termini di formazione, sia in termini emotivi. Non è semplice lavorare tutti i giorni in situazioni emergenziali, in cui i traumi che si portano dietro le persone che arrivano in qualunque porto vengono “vomitati” sugli operatori (militari e civili) che li accolgono. Molte delle persone che arrivano da situazioni di violenza perpetrate in Libia o durante il percorso migratorio, molte delle violenze subite sono state messe in atto dai rappresentanti dell’ordine pubblico, della sicurezza, pertanto il rischio di identificare le nostre forze dell’ordine con quelle che hanno picchiato, stuprato, maltrattato queste persone è davvero elevato. L’aggressività è una risposta “normale” in situazioni di trauma, in cui le reazioni possono essere di attacco o fuga se si viene messi di fronte a stimoli riattivanti situazioni traumatiche. Una divisa, un tono di voce più elevato del solito, un bastone, un semplice odore possono essere tutti riattivatori del trauma. E di lì possono scaturire reazioni che, se messe in una situazione di promiscuità, quale quella che potrebbe crearsi soprattutto durante le fasi di uno sbarco, diventano incontrollabili.
Cosa vorresti dire in risposta a tutti i pregiudizi sull’argomento?
Semplicemente di cercare di capire prima di parlare. Perché solo in questo modo, solo informandosi, possono essere evitate le storpiature alle quali continuamente assistiamo. Non pretendo che tutti conoscano la storia dei diversi paesi da cui provengono le persone che accogliamo, non pretendo che si conosca l’iter da seguire, vorrei solo che si avesse una maggiore umanità e che si fosse più “curiosi” e aperti verso l’altro, in modo da comprendere che nessuno vuole lasciare la propria terra, la propria famiglia a cuor leggero, ma che se si fa una scelta simile è per necessità, sopravvivenza. E che se anche ci fossero ragioni diverse, quale ad esempio sperare in un futuro migliore per sé, in un posto migliore rispetto a quello in cui si è nati, beh, non c’è niente di male. Del resto anche io ho cercato un futuro migliore in un posto che non era quello in cui ero nata…nel mio piccolo ho fatto la scelta di molte delle persone che ho incontrato.
Cosa ti hanno insegnato queste persone?
Mi hanno insegnato la diversità. Mi hanno insegnato i loro costumi, mi hanno insegnato ad andare oltre, a pregare un Dio che non è il mio per esser loro vicine in momenti difficili, mi hanno insegnato il rispetto, la forza (quante volte ho pensato che non sarei sopravvissuta ad un minuto solo delle torture che alcune di loro hanno vissuto, sentendomi anche un po’ in colpa delle mie piccole “cicatrici”). Mi hanno insegnato che c’è un domani, che per amore si rinuncia a quello che si era nel proprio Paese per adattarsi a situazioni impensabili, a lavori che non hanno nulla a che fare con quelli che svolgevano. L’umiltà dunque. Mi hanno insegnato ad essere più aperta di quello che già fortunatamente ero. Mi hanno insegnato la solidarietà, la condivisione. Mi hanno mostrato con i loro occhi la povertà, la disperazione. Facendomi vedere tutto da un altro punto di vista che io, donna, europea, con una condizione economica sufficientemente stabile, altrimenti non avrei mai potuto vedere.
se i migranti avessero uno spazio (ad esempio televisivo o pubblico), cosa direbbero? cosa vorrebbero che arrivasse di quello che hanno vissuto o stanno vivendo?
Vorrebbero mostrare la loro normalità di esseri umani, senza doversi vergognare o nascondere perché additati come “diversi”. E non dover assolutamente raccontare di torture o violenze, ma solo di speranze e vita futura. Raccontarsi e raccontare le proprie origini, così come facciamo noi quando, magari venendo da altri posti, raccontiamo storie, luoghi, tradizioni dei nostri nonni…
Grazie Caterina…