Il paradosso dell’ “aiuto”: quando è l’intervento a peggiorare la situazione

Chiasso

Momento Tacito – Davide Conte

All’inizio di questo articolo ci tengo a fare un ringraziamento particolare a Davide Conte, un artista ex hikikomori, che mi ha concesso il privilegio di poter avere un suo disegno inedito come copertina dell’articolo. Uso le sue parole come incipit e vi rimando alla sua pagina Facebook 

“Nonostante l’apparente semplicità dell’illustrazione, pensarla è stata più difficile che realizzarla. Trovare un modo per esprimere quello che questo articolo vuole far capire, fa tirar fuori quello che in tanti anni si è dato per scontato o addirittura escluso. Il modo forse più diretto per dirlo credo sia che per quanto ci sia del bene in fondo, in questa pressione, è comunque velenosa” (Davide Conte, LY, Losing You)

Ora veniamo a noi…

“Attorno a questo ragazzo c’è troppo rumore, per prima cosa dobbiamo abbassare il rumore”. Questa frase, pronunciata da uno dei miei “maestri”, riecheggia nella mia mente costantemente quando mi trovo a lavorare con le famiglie.

Siamo in un’epoca in cui la famiglia italiana è passata dall’essere autoritaria all’essere iperprotettiva (Nardone 2001): il motto è “nulla deve accadere a mio figlio, il mio compito è quello di rendergli la vita il più facile possibile”. I genitori troppo spesso si sentono inadeguati, pieni di sensi di colpa (articolo) alla minima difficoltà, con la convinzione che se qualcosa va male è perché loro non hanno fatto abbastanza. Cari genitori, a voi mi rivolgo, forse vi farà male quello che vi dirò ma a volte il problema è che fate troppo!

 

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Riflesso – Davide Conte

Nella mia esperienza clinica con adolescenti e genitori, soprattutto nei casi di isolamento sociale volontario (Hikikomori) emerge una grande difficoltà nei ragazzi a gestire la frustrazione, a sviluppare autonomia e, quindi, autostima. Ricordiamoci che l’autostima (articolo) si sviluppa principalmente in due modi: superando in prima persona gli ostacoli che la vita ci pone davanti e ricevendo feedback (positivi o negativi) dall’esterno, tramite quindi le relazioni interpersonali.

I nostri figli devono sentirsi in grado di affrontare e superare le difficoltà quotidiane personalmente e vedere che è proprio una eventuale caduta a renderci più forti!

E, invece, spesso di fronte ad una difficoltà c’è già la soluzione a portata di mano: c’è qualcuno che ci indica la via da seguire, che ci da una risposta pronta che non ci permette di riflettere, di dubitare, di valutare, di comprendere e di trovare la strategia idonea per superare il problema.

Ma cosa succede quando queste soluzioni sono tante, disparate e così diverse tra loro? Torniamo quindi alla frase iniziale, così potente e suggestiva per chi è in grado di comprendere il significato che nasconde.

Sovente nel mio studio arrivano persone che hanno già intrapreso altri percorsi nel tentativo di risolvere la problematica, sia con singoli professionisti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri, educatori domiciliari…) che con associazioni/servizi del territorio. Soprattutto con le famiglie capita spesso che l’intero nucleo familiare venga seguito in contemporanea da specialisti diversi: psicoterapia individuale per il figlio, terapia di gruppo per il figlio, educatore domiciliare, psichiatra per il figlio, psicoterapia individuale per mamma, papà, eventuali fratelli, psicoterapia di coppia per i genitori, psicoterapia per l’intero nucleo familiare…e chi più ne ha più ne metta!

Fermo restando che intervenire tempestivamente è indispensabile per affrontare in modo funzionale le problematiche manifestate e che un lavoro di équipe è ciò che di meglio si possa ipotizzare e realizzare, da professionista non posso che evidenziare possibili conseguenze negative di una “eccessiva medicalizzazione”.

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Uccello in gabbia – Davide Conte

Prendiamo il caso dei cosiddetti Hikikomori di cui ho parlato lungamente in altri articoli assieme alla collega Rosanna D’Onofrio (primo tra tutti questo articolo), ossia quei ragazzi che decidono di isolarsi volontariamente dalla vita sociale a causa di pressioni sociali/familiari ricevute dall’esterno. Sono persone che, nella maggior parte dei casi, non vogliono assolutamente alcun aiuto esterno perché o non ritengono di avere un problema (e quindi stanno “bene” così),oppure,  come loro stessi sovente ci comunicano, “nessuno può fare nulla per me”. Analizziamo le implicazioni di questa ultima frase ricollegandoci ad un “eccesso di interventismo”: NESSUNO Può FARE NIENTE PER ME, è inutile che io vada da uno specialista perché questo non può fare nulla per me.

  1. “Se la mia famiglia ed io siamo seguiti da così tanti professionisti significa che ho un problema veramente serio, sono malato!” E qui non possono che venirmi in mente due teorie molto care a noi psicologi: la teoria dell’etichettamento (Becker, 1963) e la vittimizzazione secondaria. La prima, di derivazione sociologica e criminologica, afferma che una persona a cui viene data un’etichetta finirà per assumere il ruolo che gli è stato attribuito. Un individuo etichettato come “malato” finirà per diventarlo a causa del grande potere assunto da una profezia che non può far altro che autodeterminarsi (Profezia che si autodetermina, Watzlawick et al.1971). E come si può non pensare di essere malati (magari anche psichiatrici) quando tutta la famiglia è inserita in un “sistema di cura” per causa tua? E quando questo sistema di cura sembra non funzionare? Senza contare le conseguenze della vittimizzazione secondaria, anche questo termine preso in prestito dalla criminologia, ossia tutte le conseguenze emotive e relazionali che emergono dal contatto tra la persona e le istituzioni preposte alla sua protezione (in questo caso tutte le figure specialistiche con cui si rapporta).
  2. “Se io sono seguito da così tanti specialisti e nessuno di loro è in grado di aiutarmi, significa che sono veramente grave e incurabile!” Si tratta di persone che, nonostante la loro giovane età (adolescenti), hanno già all’attivo numerosi tentativi (infruttuosi evidentemente) di terapia, nella maggior parte dei casi interrotti dopo qualche mese; oppure persone che allo stato attuale sono seguiti da un’équipe di professionisti (vedi sopra) molto diversi tra loro, ossia che non fanno parte di un solo centro/studio/ospedale/associazione. Perché dovrei continuare ad avere una motivazione nel farmi “curare” se tutti questi “esperti” non riescono a risolvere il mio problema?
  3. “Se ognuno mi dice una cosa diversa da fare, pensare, dire allora dove sta la soluzione?” E qui la responsabilità è nostra, cari colleghi, noi che a volte non riusciamo a fare un passo indietro e a capire che il troppo rumore genera solo confusione. Tanti approcci, tanti orientamenti, ognuno ha la propria visione del disagio ed i propri strumenti per intervenire. Tutto bellissimo e utile, ma questi devono essere in linea e congruenti tra loro al fine di perseguire gli stessi obiettivi e abbassare il “rumore”. Personalmente ritengo una necessità etica e deontologica, per i motivi elencati in precedenza, non colludere con una (comprensibile) richiesta di intervento quando già ci sono altre figure professionali attivate o, comunque, rimandare l’opportunità di affidarsi interamente ad un’équipe che sia in grado di mettere “ordine” e collaborare in stretta relazione/supervisione.
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Statua – Davide Conte

Non ultima mi viene una riflessione: ma se il problema dei ragazzi in isolamento è l’eccessiva pressione, non è questa l’ennesima pressione che noi gli stiamo mettendo? Sono ragazzi che soffrono per i ritmi frenetici della nostra società, per ciò che richiede e non da, per l’incapacità di trovare relazioni stabili con cui condividere le parti autentiche di sé. Si sentono sempre valutati, giudicati e spinti a fare qualcosa…e così nel nostro caso: devi guarire e devi farlo nel modo più rapido possibile! Non possiamo perdere tempo perché che ne sarà della tua vita? La scuola quando la riprendi? E quando questa pressione non è solo del sistema familiare (comprensibile anche in questo caso ma non efficace), ma deriva anche dalle istituzioni e dai professionisti coinvolti da cui, per forza di cose anche non in modo volontario, il ragazzo riceve pressione? c’è un intero team di esperti che gli ruotano attorno…beh la responsabilità è anche nostra!

Cosa possiamo fare, quindi, per cercare di mettere ordine e abbassare il rumore?

  • Prendersi del tempo per valutare la situazione e trovare la strategia migliore di intervento: lo so, la fretta è tanta e giustamente è indispensabile un intervento tempestivo per evitare la cronicizzazione del disagio. Ma è anche vero che la fretta è cattiva consigliera e che, per i motivi sopra elencati, si rischia di peggiorare la situazione. Informiamoci, domandiamo, facciamoci consigliare, valutiamo e, dopo aver raccolto tutte le informazioni necessarie, prendiamo una decisione dando la possibilità ai professionisti incaricati di svolgere il proprio lavoro. Sono una psicoterapeuta strategica breve, forse nessuno più di me crede nella necessità di ridurre al minimo il tempo di una terapia (proprio per cercare di diminuire gli effetti negativi dell’etichettamento e della vittimizzazione secondaria), ma è anche vero che una terapia (sia essa psicoterapia o farmacoterapia) ha bisogno di tempo per agire: c’è una relazione da costruire, una fiducia reciproca, una condivisione degli obiettivi ed un percorso da effettuare.
  • Dare tempo all’intervento per fare effetto: si ricollega all’ultima frase, ossia alla necessità di creare in primis una relazione di fiducia, la persona deve sentirsi in grado di affidarsi al professionista e concordare con lui gli obiettivi da raggiungere. Molto spesso sento frasi tipo “abbiamo provato con la terapia x, dopo 3 mesi abbiamo cambiato perché non c’erano risultati”…non abbiamo la bacchetta magica, anche se ci piacerebbe! Il passare da un professionista all’altro, da un centro a quello successivo, da un approccio teorico al suo opposto non è utile né funzionale. La paura è di perdere tempo prezioso ma, in certi casi, il tempo è nostro alleato. Condividiamo con i professionisti coinvolti i nostri dubbi, è un diritto del paziente ma anche del terapeuta per poter comprendere la situazione, i punti di debolezza e gli eventuali fattori di rischio. Dell’équipe non fanno parte solo gli specialisti ma anche i cosiddetti “utenti” che devono essere parte attiva del cambiamento individuale e sistemico.
  • Evitare di trasformarsi in “famiglie intermittenti” (Nardone, 2001) con strategie intermittenti: L’intermittenza è una modalità caratterizzata da un’ambivalenza continua e costante, c’è una incapacità di mantenere una posizione stabile mentre continuamente si mettono in dubbio comportamenti e azioni attuate rischiando di perdersi e generare confusione. Usando le parole di Nardone (2001, pp 97-98): le situazioni problematiche vengono affrontate “applicando una strategia senza poi mantenerle nel tempo, rendendo inefficace qualunque tentativo di soluzione non perché la strategia sia sbagliata, ma per la fretta di vedere risultati o per il dubbio che la strategia scelta non sia quella idonea, senza darle il tempo e l’opportunità di dimostrarsi efficace. Metaforicamente queste persone sono come chi si è perduto nella foresta e per uscire prima prendere una direzione, poi, assalito dal dubbio di aver sbagliato, torna indietro, poi non vede via di uscita e cambia strada di nuovo, e così via fino a girare continuamente su se stesso e tragicamente perdersi”.
  • Affidarsi ad una sola équipe: con l’associazione Hikikomori Italia crediamo molto nella necessità di lavorare in équipe e sull’intero nucleo famigliare (articolo), per questo motivo abbiamo selezionato (e lo stiamo ancora facendo) varie figure professionali supervisionate e che lavorano in sincronia. Sovente siamo in contatto con i servizi del territorio (centri di salute mentale, scuole, associazioni) con cui condividiamo un piano individualizzato perseguendo gli stessi obiettivi e utilizzando le stesse strategie, ognuno per il settore di competenza.
  • Ridurre al minimo il rumore: alla luce di tutto ciò spero che un messaggio sia chiaro, ossia che troppi interventi danneggiano più che favorire un eventuale risoluzione del problema. Facciamo pulizia, teniamo in considerazione gli effetti nocivi della vittimizzazione secondaria e agiamo per ridurre al minimo il rumore e la confusione, partendo dal presupposto che un buon intervento è un intervento “pulito”, senza caos. Immaginate quanto possa essere difficile camminare e trovare la strada durante una bufera di neve…ecco, molto spesso è qui che si trova catapultato colui che ha bisogno di aiuto!

Bibliografia:
Becker H.S. (2003), Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino
Nardone G., Giannotti E., Rocchi R., (2001), Modelli di famiglia, Ponte alle Grazie, Milano
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D. (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma

Informazioni su Dott.ssa Chiara Illiano

Psicologa, psicoterapeuta, esperta in psicologia giuridica. Coordinatrice Area Psicologica Associazione Hikikomori Italia per il Lazio Formatrice e docente.
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3 risposte a Il paradosso dell’ “aiuto”: quando è l’intervento a peggiorare la situazione

  1. Pingback: Essere genitori | Dott.ssa Chiara Illiano

  2. Corinna ha detto:

    Come aiutare mio figlio di 32 anni..non esce di casa da qualche anno e peggiora sempre più….come affronto l’argomento aiuto…scappa..si rintana in camera …ha bisogno di aiuto e non vuole farsi aiutare…

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    • Buongiorno Corinna, in che zona vive? può contattare l’associazione Hikikomori Italia di cui faccio parte (sono la coordinatrice dell’area psicologica dell’associazione per il Lazio) ed entrare nel gruppo di genitori. se vuole può partecipare ai nostri gruppi di auto mutuo aiuto gratuiti in cui, tra gli altri, si discute anche di questo argomento. se ha altri dubbi o domande può contattarmi in privato. cordialmente,

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