“Invecchiare? Che orrore!” diceva mio padre, ma è l’unico modo che ho trovato per non morire giovane (Daniel Pennac)
Oggi mi è capitato di leggere un articolo su maltrattamenti e violenze ai danni degli anziani negli istituti ad essi dedicati: Non si fermano le ondate di arresti e indagati in tutta Italia, operatrici sanitarie ma anche amministratori e infermieri ch,e senza ritegno, sottopongono anziani malati fisici e alcuni psichici a continue percosse e ingiurie.
Era il 2006, mi trovato nell’anno tra la laurea in psicologia e l’esame di stato. Non contenta dei miei impegni tra tirocinio e lavoro da baby sitter, decisi di svolgere attività di volontariato. Inizia così il mio viaggio nella terza età! Chiesi ad un’ associazione di poter collaborare con lo psicologo presente in un centro diurno per anziani fragili, inizialmente in affiancamento. Dopo aver conseguito il titolo di psicologa, cominciai a seguire singolarmente gli utenti del centro (attraverso consulenze psicologiche) e a formare gli operatori che lavoravano quotidianamente a contatto con questa fascia d’età.
Inutile dire che scoprii un mondo diverso, lontano da stereotipi e pregiudizi…come disse qualcuno una volta “bisogna sporcarsi le mani”, entrare nei contesti e nelle situazioni e viverli da dentro!
Ero giovane e inesperta, tanto diedi a quella manciata di anziani presenti e tanto ricevetti! Non scorderò mai una donna di 83 anni che chiese il mio aiuto perché “depressa”. Non aveva sviluppato quella che in termine tecnico si definisce una “depressione maggiore”, ma era depressa per la situazione che viveva (“depressione reattiva”): aveva perso il marito anni prima proprio a causa di quel figlio tossicodipendente che, grazie allo “ndulto” (indulto Ndr.) come lo definiva lei, ora si ritrovava dentro casa assieme ad un altro figlio con deficit neurologici e malattia psichiatrica. Completava il quadro una figlia con disturbo depressivo seguita dai servizi territoriali di riferimento. Questa signora arriva da me dicendo “dottoressa io non ce la faccio più, mi aiuti lei per favore, io voglio cambiare la mia situazione ma non so come fare!”.
Il nostro percorso è andato avanti per mesi, lavorando sulle risorse della persona, aiutandola a crearsi spazi per sé (non faceva più niente per sé stessa da anni), a gestire le comunicazioni con i figli…in poche parole a ritrovare un equilibrio che da troppo tempo aveva perso. Ma questo è un altro discorso, non importa ciò che ho fatto assieme alla persona, ma quello che la persona ha fatto per me! Rendermi conto che ad ogni età si può cambiare, che un 83 enne decide di mettersi in gioco, di impegnarsi, di guardarsi dentro e agire in modo diverso…si, questa dolce paziente mi ha insegnato tanto sia privatamente che professionalmente!
E come non ricordare mia nonna che fino all’ultimo, fino a che l’Alzheimer non l’ha resa una persona priva di identità e totalmente non autosufficiente, non si è mai lamentata: le dita delle mani e dei piedi completamente deformate dall’artrosi, una vita fatta di sacrifici, dolori e sofferenze eppure, dalla sua bocca, mai una lamentela perché lei non era una “vittima”, lei era “una donna forte”!
Tanto mi hanno insegnato queste persone…e così continuo a lavorare in ambito geriatrico anche come formatrice di operatori che quotidianamente sono a contatto con questa tipologia di utenza.
Il loro non è un lavoro facile, nessuno può affermare il contrario! Chi lavora nel settore della geriatria sa che è elevato il livello di burn out e questo perché agli operatori viene affidato un ruolo non semplice: devono operare con individui definiti incurabili, carenti in molte funzioni e che si avvicinano gradualmente al termine della loro vita.
Lo stereotipo dell’anziano “marchiato dalla morte” genera forti emozioni e talvolta sofferenza nel personale curante che derivano da:
- Frustrazione causata dal proprio ruolo lavorativo e dal dover combattere con una tipologia di pazienti per cui è impossibile ipotizzare una guarigione
- Paure, angosce, timori individuali rispetto al tema della morte
- Confronto con la famiglia che sta vivendo una situazione difficile: è in preda alla confusione, senza supporto e tende spesso a delegare all’operatore, non sentendosi “capace”
- Il senso di solitudine e l’assenza di feedback positivi sul proprio ruolo (molto spesso manca il lavoro di rete)
- L’aria di depressione che si respira all’interno degli ospedali o degli istituti geriatrici
- Le richieste eccessive dei pazienti, la confusione, lo smarrimento
- La dipendenza sviluppata dagli anziani che pesa sul singolo operatore
Con questo non voglio tentare di giustificare chi è coinvolto nei fatti di cronaca attuali, ma voglio cercare di comprendere cosa ci sia dietro questo fenomeno! Ed il problema nasce, a mio avviso, da una parte da una cultura troppo piena di pregiudizi e stereotipi e dall’altra da un abbandono a 360 gradi: dell’anziano, della famiglia, degli operatori.
Rispetto al discorso culturale, sembra esserci un’ adesione generalizzata alla fatalità dell’invecchiamento, con tutti i sintomi e le manifestazioni che comporta. È una sorta di rinuncia alla vita che include il malato, i familiari, l’ambiente di riferimento ed il mondo sociale e culturale in generale.
L’ambiente circostante (sociale, familiare, relazionale…) tende a vedere l’anziano come un fantasma dei tempi che furono: molte volte si pretende che siano sempre gli stessi (facoltà mentali, fisiche, relazionali e comunicative), nello stesso tempo invece li si tratta come fossero dei bambini da accudire, privandoli così della loro dignità e della loro storia. Sono vittime di un “sistema relazionale infantilizzante” (Ploton 2003). Lo stereotipo dell’anziano=bambino mi fa venire i brividi…l’anziano ha una vita alle spalle, è ricco di esperienze, di storie, di relazioni: non può essere considerato un bambino solo perché, naturalmente, sta perdendo alcune delle facoltà cognitive ed intellettive!
“Diritto di ogni anziano a conservare il più alto livello di benessere compatibile con le reali condizioni cliniche” (Ploton, 2003)
Oltre a questo, si parla molto DELL’anziano ma non si parla CON l’anziano: lo si priva della capacità di prendere decisioni inficiando così la sua identità e amplificando un’immagine svalutata di sé e delle proprie capacità. Ok, forse in alcuni casi non sarà in grado di prendere delle decisioni in determinati ambiti, ma perché non parlare con lui? Perché non ASCOLTARE la sua opinione e magari cercare un accordo? O, più semplicemente, spiegargli cosa sta accadendo! Studi scientifici hanno dimostrato che l’anziano, anche il più debilitato a livello psicofisico ed intellettivo, è in grado di comprendere ciò che gli viene detto, a patto che si riesca a trovare il canale comunicativo adeguato.
Educare alla vecchiaia significa partire dal presupposto che non siamo di fronte ad una malattia ma ad una fase della vita che non può essere accettata passivamente ma che deve essere “vissuta”, confrontandosi con le difficoltà e le carenze e puntando sulle risorse residue, evitando così di “ammalarsi” inutilmente e prematuramente.
E a tutti gli operatori che si trovano a lavorare in questo ambito voglio ricordare che
Solo la compassione ci rende capaci di comprendere la sofferenza nei suoi vari momenti, assegnandole significati specifici nella profonda diversità delle situazioni (Ploton 2003, pag XIX)