Visto che in molti, avendo visto la mia foto da psicologa “che non ripara”, mi hanno chiesto cosa fosse successo ho deciso di dedicare uno spazio a questo delicatissimo ed importantissimo argomento sul mio blog!
Negli ultimi giorni sono rimasta molto colpita da quanto accaduto all’interno del panorama psicologico italiano: proprio mentre a livello internazionale viene sostenuta a gran voce l’inefficacia delle cosiddette “terapie riparative” (anche il presidente degli Stati Uniti Obama recentemente si è pronunciato a favore della messa al bando di tali terapie che avrebbero spinto al suicidio Leelah Alcorn, 17enne transgender che lamentava le pressioni di una terapia impostale per farla tornare ragazzo ed eterosessuale), nel nostro paese il CNOP (Consiglio nazionale ordine psicologi) pubblica sulla sua pagina facebook il link ad un articolo uscito su La Croce, di Mario Andinolfi, che sostiene proprio le terapie riparative.
Tutto ciò ha suscitato il mio sdegno e quello di migliaia di colleghi psicologi che si sono subito mobilitati chiedendo, tra l’altro, una presa di posizione netta del Consiglio contro le terapie riparative, la rimozione del post e del gestore della pagina FB…a distanza di giorni siamo ancora in attesa di una risposta!
Anche i singoli ordini regionali hanno fatto sentire la propria voce, partendo da Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio ed un gruppo di psicologi ha creato (già prima dell’ accaduto) il gruppo Facebook #iononriparo, chiedendo ai colleghi di “metterci la faccia” esprimendo la propria posizione contraria.
Ma cosa sono precisamente queste terapie?
Le terapie riparative (o di conversione o di riorientamento sessuale), sono quegli interventi volti a modificare l’orientamento sessuale di una persona, dall’omosessualità all’eterosessualità, o eliminare/ridurre desideri e comportamenti messi in atto.
Per appronfodire l’argomento vi riporto il comunicato dell’Ordine degli Psicologi dell’ Emilia Romagna che, inquadrando la situazione ed il contesto di riferimento, spiega perché siano inutili (E DANNOSE) le terapie riparative e pone l’accento sul nostro codice deontologico che, forse, alcuni colleghi hanno dimenticato ma che io, personalmente, condivido in pieno ed in cui credo fermamente!
In questi ultimi mesi diversi gravi episodi di omofobia e il diffondersi di informazioni e sollecitazioni attraverso siti internet, convegni, pubblicazioni di libri e articoli sul tema delle terapie riparative hanno riaperto il dibattito e la necessità di nuove e ulteriori riflessioni in merito all’atteggiamento della scienza verso l’omosessualità. Come Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna sentiamo l’esigenza di esprimere il nostro pensiero.
L’omosessualità è una malattia?
Per caratteristiche culturali proprie delle società occidentali e per concezioni scientifiche fortemente condizionate da esse, fino al 1974 l’omosessualità compariva come categoria diagnostica di disturbo mentale sia nella classificazione mondiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-9) che in quella dell’APA, American Psychiatric Association (DSM-II).
Nei lavori di revisione del DSM-II che portarono alla pubblicazione del DSM-III nel 1974 l’APA eliminò dalla classificazione dei disturbi mentali l’omosessualità, includendo invece in un’unica categoria – quella di Disturbi dell’Identità di Genere– ogni “malessere persistente riguardante il proprio sesso assegnato”. L’accento dell’APA, a partire da allora, è posto sul malessere persistente (DSM-IV, criterio B) vissuto dall’individuo nella propria identità di genere qualunque sia l’orientamento sessuale. Vale a dire che il disturbo consiste nel vissuto di disagio della propria identità e non nell’orientamento sessuale di per sé. L’omosessualità, che non rientra nell’ambito delle identità di genere, non è quindi annoverata tra le patologie, ma il malessere individuale che in certi casi provoca può spingere a una richiesta di aiuto e rendere effettivamente necessario un intervento psicologico.
Una posizione analoga è stata raggiunta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1990 durante i lavori di revisione dell’ICD-9 e nella successiva classificazione (ICD- 10) l’omosessualità non compare come categoria diagnostica.
Terapie Riparative: valutazioni scientifiche sull’efficacia e sulla utilità.
Il no della scienza.
Dopo aver analizzato la letteratura scientifica, sia clinica che di ricerca, su terapie di persone omosessuali che hanno chiesto aiuto per il disagio vissuto nei confronti del loro orientamento sessuale, nell’agosto del 2009, l’American Psychological Association ha pubblicato un report con lo scopo di definire quale tipo di terapia sia utile per i bambini, gli adolescenti e gli adulti che vivono tali disagi.
In tale report si sintetizzano una serie di dati riguardanti le terapie che si pongono l’obiettivo di modificare l’orientamento sessuale:
- gli studi dimostrano che è raro modificare l’orientamento sessuale di un individuo, anche quando vi sia una richiesta di aiuto in questo senso.
- recenti studi riportano evidenze sugli effetti iatrogeni di tali terapie: perdita di interesse sessuale, ansia e depressione, impulsi suicidiari. Gli individui che non riescono a cambiare il loro orientamento sessuale affrontano gravi stress emotivi e spirituali e ne escono con una negativa immagine di sé.
- la maggior parte degli individui che si sottopongono a questo tipo di terapia sono adulti maschi bianchi, molti dei quali sono in trattamento psicoterapico obbligatorio su decisioni del Tribunale o vi partecipano per motivi legati al loro credo religioso.
- esistono dati che mostrano come questo tipo di terapie possano aumentare nei bambini e negli adolescenti lo stigma di sé e lo stress di appartenere ad una minoranza, aumentando così lo stress della crescita.
Sempre come risultato dell’analisi delle ricerche e dei dati clinici, sono stati osservati effetti positivi dati da terapie individuali e di gruppo accoglienti e non giudicanti, supportive, capaci di mitigare gli aspetti conflittuali sul proprio orientamento sessuale e di ridurre lo stigma sessuale interiorizzato. In conclusione, l’APA indica e raccomanda di orientarsi, nella cura di persone che vivono un persistente malessere nei riguardi del loro orientamento sessuale, verso terapie accoglienti e supportive, rispettose dei valori, convinzioni e bisogni del cliente, orientate a esplorare e sviluppare l’identità del loro orientamento sessuale e ridurre lo stigma sessuale interiorizzato, aiutandole a comporre i loro conflitti sociali, religiosi e relazionali. Invita anche gli organismi sociali a lavorare per la riduzione degli effetti del pregiudizio, dello stigma sessuale, della discriminazione degli individui, dei gruppi e delle loro famiglie.
L’APA esprime anche la preoccupazione che il diffondersi di queste terapie, e relative teorie, contribuisca all’aumentare i pregiudizi e le discriminazioni sociali e – di conseguenza – le condizioni di stress per gli individui e le loro famiglie.
Alla diffusione delle terapie riparative ad opera di associazioni – spesso cristiane – come NARTH, Exodus, Agapo, Living Waters Italia, Consultorio Delta, ecc. (che offrono consulenze, organizzano conferenze, sedute di psicoterapia e seminari, spesso dietro compenso), a partire dagli anni ’90, si sono contrapposti, con affermazioni di dissenso e pareri contrari, associazioni scientifiche e autori di tutto il mondo. Oltre alla già citata APA che si è espressa ripetutamente in merito (1994, 1997, 1999, 2009), possiamo ricordare l’American Academy of Pediatrics (1993), l’American Counseling Association (1999), la National Association of Social Workers (1996, 2000), l’Australian Psychological Society (2009). In Italia tra i tanti che hanno espresso parere contrario alle Terapie Riparative, troviamo Giuseppe Di Palma – Presidente dell’Ordine Nazionale degli Psicologi (2008), Amedeo Bianco – Presidente dell’Ordine dei Medici (2008), l’Ordine degli Psicologi della Lombardia (2010), l’Ordine degli Psicologi del Lazio (2010), l’Ordine degli Psicologi del Veneto (2010).
Codice Deontologico e Psicoterapie
Negli articoli 3 e 4 del Capo 1 – Principi generali, il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani definisce le fondamenta dell’intervento psicologico nei confronti di chi chiede aiuto e ne stabilisce i confini.
L’articolo 3 afferma che lo Psicologo “in ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stesse e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Lo Psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza…”.
Lo scopo dell’intervento psicologico è dunque quello di accrescere la consapevolezza della persona sofferente cioè quello di fare luce sulle sue paure, sui suoi desideri più autentici, sulle motivazioni della sua sofferenza o del disagio che sta vivendo. Allo Psicologo è richiesta la consapevolezza della significatività del suo intervento e l’attenzione a evitare l’uso non appropriato della sua influenza. Ciò implica che lo Psicologo sappia conoscere la complessità di vita della persona che a lui si rivolge in modo da rispettarne – come afferma l’art. 4 – “…la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia…”, senza operare alcuna discriminazione “in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.”. Lo Psicologo ha dunque il dovere di mettere da parte il suo sistema di valori per permettere all’individuo di esprimere e comprendere la sua complessità, per comporre i suoi conflitti, per integrare aspetti di sé fino a quel momento ignorati, negati, sconosciuti.
L’art. 5, Capo 1 – Principi generali delimita un ulteriore confine dell’intervento psicologico vincolando lo Psicologo ad operare su basi scientifiche cioè a “mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi …” , ad impiegare “metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e i riferimenti scientifici…” e a non suscitare “nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate.”.
La scienza, dunque, con il DSM-IV e l’ICD-10 non classifica più l’omosessualità come malattia ed evidenzia l’inefficacia di terapie volte a modificare l’orientamento sessuale dell’individuo, mentre segnala la necessità di aiutare e curare il malessere di coloro che soffrono per il proprio orientamento sessuale. Lo Psicologo, per l’art. 5 del Codice deontologico, è vincolato a queste indicazioni del mondo scientifico, è vincolato cioè a alleviare la sofferenza di chi soffre per il proprio orientamento omosessuale e a non suscitare la falsa aspettativa che la cura possa portare a un cambiamento del proprio orientamento.
D’altro canto i dati scientifici mostrano che ci sono persone che chiedono aiuto non solo per sollevarsi dalla sofferenza, ma anche per cambiare il proprio orientamento sessuale.
Che fare?
Forse innanzitutto ci si può interrogare sul perché questo accada e riflettere su quanto ciascun essere umano sia influenzato dal contesto storico, sociale e culturale in cui è cresciuto e in cui vive e su quanto sia proprio questo contesto a essere ancora oggi fonte di sofferenza per le persone che si trovano a vivere la condizione di appartenere ad una minoranza. Se l’orientamento omosessuale implica ancor oggi un sistema di pregiudizi da parte della società, questo può essere di per sé fonte di paure e sofferenze, essendo un fondamentale bisogno umano sentirsi accettati. Possiamo allora pensare che una grossa parte di questo malessere derivi da un conflitto interno al soggetto tra il proprio orientamento sessuale e la disapprovazione/disprezzo sociale, ovvero di una “omofobia interiorizzata” che lede e svaluta l’immagine di sé, causando imbarazzo, vergogna, colpa, fino a indurre talvolta ideazione suicidiaria.
Diventa allora eticamente necessario per il professionista: aiutare la persona a divenire consapevole di questo conflitto aiutandola a comporlo; accogliere, attraverso un ascolto rispettoso, le paure, i dubbi e le sofferenze per permettere alla persona di trovare, con sempre maggiore consapevolezza, soluzioni autentiche e costruttive per la propria vita; permettere all’individuo di essere sempre più libero da condizionamenti inconsapevoli.